Avevo undici anni, forse.

Avevo undici anni, forse. Non ricordo bene. A quel tempo si andava, tutta la famiglia, all’ippodromo. Ha sempre avuto il pallino delle scommesse la mia famiglia; chi coi soldi, chi col caso. Di solito entravamo, raggiungevamo un gruppo di seggiole qualsiasi sulle gradinate degli spalti e, una volta deciso il punto, lasciavo i miei alle spalle e andavo in cerca di avventure. D’inverno si andava alla domenica pomeriggio, d’estate al venerdì sera.
Ero a capo di una sorta di banda al tempo, laggiù. Una per ogni stagione. Ogni anno diversa.
D’inverno era semplice: bastava immergersi nel sole spento, fino alla zona dedicata ai bambini. Là c’erano gli animali nei recinti e le giostre metalliche da giardino; di quelle che si trovano anche negli asili. Degli animali ricordo solo la puzza , in particolare la puzza delle anatre, immerse in quella pozza nera e fangosa che simulava l’idea di uno stagno; pure delle giostrine ricordo l’odore, di ferro senza vernice, ma anche senza ruggine. Ti si appiccicava sulle mani e poi sui vestiti e poi sul naso, anzi, nel naso, la puzza.
E poi ricordo che giravamo come pazzi sulla “Giostra della Morte”, la chiamavamo così, fino vomitare o perdere l’equilibrio. Sì, quella giostra con un cerchio nel mezzo e le sedie che attorno quel cerchio ruotavano.
E infine, quando ci scacciavano, andavamo nel parchetto di lato, in mezzo agli alberi e tutto il resto e là ci arrampicavamo e ci azzuffavamo con le altre bande.
Non eravamo mai in molti nella mia banda: due, tre o quattro maschi o femmine. E se eravamo più di due era perché gli altri erano fratelli e/o sorelle, o tizi che tra loro già si conoscevano.
Una volta eravamo arampicati su un albero come scimmie. Un tizio di una banda rivale si divertiva a lanciarci cose che raccoglieva da terra. Ma non erano banane, erano pigne, fresche, dure. Una mi raggiunse sulla fronte. Non ero caduto dall’albero perché in quel momento ero una scimmia e mi ero legato con la coda. Però anche le scimmie sanguinano e così avevo fatto anch’io: dovevo stare al gioco e aderire al mio ruolo.
Ricordo ancora la faccia del ragazzino nel momento in cui mi colpì. Non credo si aspettasse di colpirmi. O meglio, non credo si rendesse conto di cosa stava facendo. Comunque sia, se la perdita dell’innocenza consiste nel capire la differenza tra il bene ed il male, quella di certo, era la faccia di uno che aveva appena perso l’innocenza ed entrava, anzi, cadeva inciampando, nell’adolescenza.
Gli altri allora mi portarono al cesso a farmi medicare dalle custodi. Attraversammo tutto l’ippodromo. Le persone ci guardavano con una grande O al posto della bocca. Ma nessuno faceva o diceva niente; allora come oggi.
Non ricordo poi se mia madre se ne accorse… Ma credo di no.
D’estate invece cambiava tutto. Le corse si svolgevano di sera, e quindi il parco giochi era vuoto e c’erano pochi ragazzini in giro. Quache ragazzina, quelle sì. Avevo legato con un paio di loro. Ma se c’era l’una non c’era l’altra e via di seguito. Così mi trovavo sempre solo con l’una o con l’altra.
In quelle occasioni ero io a disegnarmi grandi O sulla bocca. Mi accadeva spesso di assistire a comportamenti o a gesti loro per me privi di ogni logica, ma che sapevo in qualche modo, dedicati a me. Li avrei capiti molto più tardi.
Capitava però che non ci fosse nessuno con cui tergiversare. Quindi mi arrangiavo da me.
Una sera dedicai tutto il tempo a raccogliere i semi dei pini marittimi nel parchetto: i pinoli. I pinoli erano caduti dalle pigne ancora appese ai rami, però, stavolta, mature e aperte.
Quella sera raccolsi circa trecento semi.
Il giorno dopo li ficcai nel terreno e aspettai. Anzi. Non aspettai per niente, dato che ogni due ore andavo a controllare se erano germogliati.
Qualcosa successe dopo alcuni giorni: una specie di ragno verde con le gambe all’aria spuntò da terra. I giorni successivi ne spuntarono molti altri. Circa duecento.
Molti morirono nei giorni immediatamente successivi. Altri morirono nel giro di qualche settimana. Ma una cinquantina ne rimasero.
A fine stagione mio padre pensò bene di dimenticarsi della loro esistenza e quindi li decimò col decespugliatore finché la memoria non gli apparve miracolosamente. Ne restarono una ventina, ed ormai erano alti una decina di centimetri.
Dato che stavano crescendo fui costretto a trasferirli.
Dopo il trasferimento ne soppravvisero solo tre.
E poi, dopo pochi mesi, ne rimase uno soltanto.

Per vent’anni lui crebbe indisturbato, fino a che, una motosega non gli andò a sbattere insistentemente ma con pazienza, contro.

“Dobbiamo costruire una casa, qui, noi. E – indicando la legna da ardere che prima era un pino marittimo - questo albero era proprio tra i coglioni” .

Di quei trecento semi, quell’albero, quel mucchio di legna da ardere, era il primo nato e l’ultimo morto
.

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