Ventitrè Dicembre duemilaotto.
Ventitrè Dicembre duemilaotto, ore quattordici e zeronove, o giù di lì. Sono in stazione di X ed aspetto il treno per Y. Arriva proprio in quell'ora o su di lì. Salgo, non prima di avere lasciato sfilare le prime quattro carrozze, come al solito, ed avere aperto l'ultima porta della quinta carrozza, come al solito, che nemmeno ho dovuto rincorrere, tanto precisa era la posizione che ormai sapevo calcolare grazie all'abitudine.
Strano pensai mentre stavo per entrare: le prime quattro carrozze sono affollate e questa, l'ultima è completamente vuota, o, almeno così mi parve dai finestrini. Effettivamente qualcuno c'è vedo ora, che sono seduto e che il treno è pure partito calmamente. Si tratta di un nero, ben vestito, rasato, con gli occhiali dalla montatura sottile. Si alza e cammina nervoso, guardando fuori e poi tornando indietro con il corpo e con lo sguardo, verso la mia direzione che naturalmente, era verso l'ultima poltrona, in fondo, ovviamente come già detto, nell'ultima carrozza.
Si ferma e mi chiede qualcosa che non capisco subito: parla male anche se con calma apparente dovuta ad una gentilezza di cisrcostanza, ma al tempo stesso concitato, come se fosse la persona con meno tempo al mondo. Sono costretto a chiedermi più volte il senso delle sue parole ma, poi capisco che voleva sapere la strada per giungere all'ospedale dalla stazione di Z. Non la sapevo la strada, ma sapevo bene la strada dalla città di K, là vicino, gli dico io. Lui taglia corto e senza rispondere, come assorto in altre circostanze, si gira e torna a sedere.
Dura poco. È già in piedi e passeggia nervosamente.
Trillo di cellulare, risponde. Poche brevi parole che non risconosco, data la lingua, ma che riconosco lo stesso, subito dopo, non appena incredulo abbassa il telefono, torna verso la sua poltrona e si accascia di peso, mentre lo si sente piangere, forte, intrettenibile.
Mi si gela il sangue nelle vene.
Vorrei fare qualcosa.
Ma cosa?
È la prima volta che assisto la reazione di una persona che, immagino, abbia ricevuto la notizia della morte di un proprio caro, forse di un carissimo.
Cosa faccio?
Mi alzo?
Esco?
Vado là vicino?
Aspetto che passi questo momento?
Nella confusione decido l'ultima, ma continuo a controllare i movimenti dell'uomo.
Lo sento disperare per qualche minuto, lo vedo aprire il finestrino affacciarsi e prendere aria.
Lo vedo chiudere il finestrino, e andare verso il WC a ritirarsi, poco prima di arrivare ad una stazione di intermezzo.
Salgono alcune persone. Occupano i primi posti della carrozza, lontano da me.
Rientra l'uomo. Si risiede, visibilmente scosso e agitato.
Passa poco, ancora poco.
Un urlo, due urli, che di umano avevano poco.
I passeggeri all'inizio si alzano di scatto e rimangono comunque impalati ai loro posti. Hanno paura. Non muovono un dito. Non dicono una parola.
Basta. Non ce la faccio più.
Mi alzo e gli vado vicino, alla giusta distanza, mentre la sua faccia deforme dal pianto evita qualsiasi sguardo, qualsiasi parola cerco di dirgli. Probabilmente non sente nulla, solo se stesso, com'è comprensibile.
Gli altri viaggiatori sono ancora là, in piedi impalati immobili, col silenzio che sbava dalle labbra stroppicciando ogni loro reazione differente da quella che già stavano mimando.
Mi avvicino, dico loro che ha appena ricevuto una terribile notizia e sta male.
Si muove solo un individuo che sembra marocchino o, algerino.
Si avvicina, scambia due parole con me e poi cerca di scambiarne con lui, poi se ne va.
Io me ne resto in piedi là vicino, alla giusta distanza. Finché non si calma. Finché un po' di sé torna in lui. Finché non risponde almeno alle mie stupide domande. Appena ringrazia, capisco che vuole rimanere solo e me ne torno a sedere.
Arrivati alla stazione di K gli dico che se vuole raggiungere la città di Z e quindi l'ospedale di Z deve scendere qui a K, e prendere un altro treno.
Lui, laconicamente, dice solo: "non importa, ormai non mi resta altro che tornare a casa."
Capimmo entrambi quello che volevamo capire dai nostri sguardi e poi, ognuno per la sua strada.
Si ferma e mi chiede qualcosa che non capisco subito: parla male anche se con calma apparente dovuta ad una gentilezza di cisrcostanza, ma al tempo stesso concitato, come se fosse la persona con meno tempo al mondo. Sono costretto a chiedermi più volte il senso delle sue parole ma, poi capisco che voleva sapere la strada per giungere all'ospedale dalla stazione di Z. Non la sapevo la strada, ma sapevo bene la strada dalla città di K, là vicino, gli dico io. Lui taglia corto e senza rispondere, come assorto in altre circostanze, si gira e torna a sedere.
Dura poco. È già in piedi e passeggia nervosamente.
Trillo di cellulare, risponde. Poche brevi parole che non risconosco, data la lingua, ma che riconosco lo stesso, subito dopo, non appena incredulo abbassa il telefono, torna verso la sua poltrona e si accascia di peso, mentre lo si sente piangere, forte, intrettenibile.
Mi si gela il sangue nelle vene.
Vorrei fare qualcosa.
Ma cosa?
È la prima volta che assisto la reazione di una persona che, immagino, abbia ricevuto la notizia della morte di un proprio caro, forse di un carissimo.
Cosa faccio?
Mi alzo?
Esco?
Vado là vicino?
Aspetto che passi questo momento?
Nella confusione decido l'ultima, ma continuo a controllare i movimenti dell'uomo.
Lo sento disperare per qualche minuto, lo vedo aprire il finestrino affacciarsi e prendere aria.
Lo vedo chiudere il finestrino, e andare verso il WC a ritirarsi, poco prima di arrivare ad una stazione di intermezzo.
Salgono alcune persone. Occupano i primi posti della carrozza, lontano da me.
Rientra l'uomo. Si risiede, visibilmente scosso e agitato.
Passa poco, ancora poco.
Un urlo, due urli, che di umano avevano poco.
I passeggeri all'inizio si alzano di scatto e rimangono comunque impalati ai loro posti. Hanno paura. Non muovono un dito. Non dicono una parola.
Basta. Non ce la faccio più.
Mi alzo e gli vado vicino, alla giusta distanza, mentre la sua faccia deforme dal pianto evita qualsiasi sguardo, qualsiasi parola cerco di dirgli. Probabilmente non sente nulla, solo se stesso, com'è comprensibile.
Gli altri viaggiatori sono ancora là, in piedi impalati immobili, col silenzio che sbava dalle labbra stroppicciando ogni loro reazione differente da quella che già stavano mimando.
Mi avvicino, dico loro che ha appena ricevuto una terribile notizia e sta male.
Si muove solo un individuo che sembra marocchino o, algerino.
Si avvicina, scambia due parole con me e poi cerca di scambiarne con lui, poi se ne va.
Io me ne resto in piedi là vicino, alla giusta distanza. Finché non si calma. Finché un po' di sé torna in lui. Finché non risponde almeno alle mie stupide domande. Appena ringrazia, capisco che vuole rimanere solo e me ne torno a sedere.
Arrivati alla stazione di K gli dico che se vuole raggiungere la città di Z e quindi l'ospedale di Z deve scendere qui a K, e prendere un altro treno.
Lui, laconicamente, dice solo: "non importa, ormai non mi resta altro che tornare a casa."
Capimmo entrambi quello che volevamo capire dai nostri sguardi e poi, ognuno per la sua strada.
...bello,toccante,descrivere con parole ciò che non si lascia descrivere con le parole.
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